Intervista ad Alfonso Lentini: le parole, il mondo e il “morso delle cose”

a cura di Anna Utopia Giordano [ da Naked Truths, 1 settembre 2013 – visita sito ]
Testo originale in italiano

Naked Truths ha intervistato Alfonso Lentini, uno scrittore e artista italiano, sulla sua visione del corpo e sul suo ultimo libro “Luminosa signora. Lettera veneziana di amore ed eresia” (Pagliai, 2011). Nelle sue mostre e installazioni espone “poesie oggettuali”, libri d’artista e opere basate sulla valorizzazione della parola nella sua dimensione materiale e gestuale. È autore, in collaborazione con Aurelio Fort, del progetto artistico internazionale “Resistere per Ri\esistere”  culminato a Belluno il 25 aprile 2013 con una grande installazione urbana in occasione della Festa della Liberazione. Ha pubblicato “Piccolo Inventario degli specchi” e “Un bellunese di Patagonia” (Ed.Stampa Alternativa). Il suo libro “CentoMadri” (Foschi, 2009) ha vinto il premio “Città di Forlì”.

1 – Che cosa significa per te la parola “corpo”?

Il corpo lo immagino come un sistema di sensori attraverso i quali percepiamo il mondo e mandiamo segnali perché altri possano percepirci. Attraverso il corpo cerchiamo l’altro e l’altro cerca noi. Lo considero come un complesso veicolo di tensioni in entrata e in uscita: erotismo, passione, gioia, violenza, sofferenza… Lo vedo insomma come un’interfaccia, una linea di confine che ci consente di “venir fuori” da noi stessi e di comunicare.
Tuttavia il corpo non è veicolo di verità. Nel percepire il mondo, lo deformiamo, lo “addomestichiamo”. Riducendolo a nostra immagine e somiglianza, gli diamo forma umana, alfabetica o geometrica. E a nostra volta, attraverso il corpo raccontiamo solo una parte di noi stessi, quella esteriore, cioè la più mutevole e sfuggente. Il corpo, per quanto costitutivo della nostra natura, somiglia a un vestito, a una maschera, a un travestimento.
È dunque seminatore di inganni percettivi e comunicativi. Per questo è facilmente strumentalizzabile o manipolabile. Tutto sommato è una membrana debole, esposta a rischi. Un affascinante straccio che sventola nelle intemperie.
Questo è ancora più evidente in tempi in cui i corpi viaggiano sempre più frequentemente online, in una dimensione dove mondo virtuale e mondo reale si intrecciano caoticamente e velocemente e dove gli inganni percettivi sono un altissimo rischio. Questo forsennato e affascinate viaggio è un rischio, appunto, ma nello stesso tempo è una sfida che vale la pena accettare, pur mantenendo sempre attive le antenne dello spirito critico. Sono mille le potenzialità esplorative che la globalizzazione dei segni e dei corpi può aprire!
Del resto, il confine tra finzione e realtà è stato da sempre molto labile. Lo scambio dei ruoli, la polivalenza dei corpi, la loro ambiguità esisteva ben prima dei nostri tempi; basti pensare che il teatro, luogo del travestimento per eccellenza, è la forma d’arte più antica inventata dall’uomo.
La globalizzazione mediatica ha solo amplificato a dismisura queste problematiche portandole ai  livelli più estremi.

2 – Il tuo parere sull’espressione “corpo-oggetto”.

Più che un parere posso esprimere una constatazione. Se parliamo di corpo umano, allora è scontato che esso non è un oggetto come tutti gli altri, ma qualcosa di vivo e dunque ben più complesso. Quando il sistema mediatico o altri condizionamenti culturali tendono a presentarlo come “oggetto”, vedi la mercificazione del nudo femminile, operano una spaventosa semplificazione dalla quale bisogna stare alla larga. Ma non tutte le rappresentazioni del nudo possono essere ricondotte alla “riduzione ad oggetto” del corpo. C’è una discriminante ma, secondo me, non è quella convenzionale che tende a separare erotismo da pornografia. La vera discriminante passa attraverso la consapevolezza, la complessità e la valenza dei messaggi che si vogliono trasmettere.
Il nudo può essere sia una forma di travestimento che di svelamento.

3 – Qual è il “significato” della figura femminile nel tuo romanzo “Luminosa signora. Lettera veneziana d’amore e d’eresia”?

Il libro è un’incalzante e tormentata “lettera d’amore” rivolta a una figura femminile la cui identità non è mai svelata del tutto. La situazione che descrivo è paradossale: il protagonista che scrive la lettera vede fluttuare in giro perla sua abitazione una donna dalla quale è fortemente affascinato, che però sembra vivere in una sorta di mondo parallelo, quello dell’assoluta alterità. Non comunica, non interagisce con lui se non con qualche cenno sfuggente, eppure la sua è una presenza corporale, forte, decisa, quasi prepotente.
La lettera è una folle dichiarazione d’amore, ma anche un tentativo di stabilire un contatto, una richiesta di aiuto. In quanto appartenente alla dimensione dell’assoluta alterità, pensa il protagonista, forse la misteriosa ragazza è in grado di rispondere ad alcune delle mille domande che lo ossessionano. E per questo le scrive.
Tale situazione narrativa è dunque un pretesto per sviluppare una serie di riflessioni sul mistero, sull’inspiegabilità delle cose, sulla “liquidità” inafferrabile del mondo che sembra in progressivo sgretolamento. La ragazza non risponde a nessuna delle domande, rimane irraggiungibile e lontana (per quanto fisicamente vicinissima), tutta avvolta nella sua dimensione fantasmatica. Ma la “Luminosa signora” è anche una donna bellissima e sensuale. Il suo corpo, che appare impalpabile, è nello stesso tempo molto carnale e fisico. Non è una donna angelo, né una Madonna: la sua presenza genera insieme desideri erotici e ansie metafisiche. La sua è una “luminosità”di tipo lunare.

4 – “Tutti noi non siamo che impronte, prove, tentativi venuti male di una creazione incompiuta”: è una frase tratta dal tuo romanzo. Puoi spiegarci meglio questo concetto?

>“Luminosa signora” si apre con una citazione tratta dalla “Lettera sull’immortalità” di Gino De Dominicis dove questo grande artista italiano mette in discussione l’idea stessa che le “cose” possano davvero “esistere”. Il mio libro, per quanto scritto in forma di lettera d’amore, è infatti una riflessione sulla friabilità, sulla precarietà, sull’enigmaticità dell’esistenza. Quella di cui mi chiedi è una frase allusiva che rimanda a ipotetiche teologie eretiche o a punti di vista eccentrici: e se, per assurdo, una qualche divinità avesse generato il nostro universo (con tutta la sua tragica scia di dolore che lo attraversa) solo come capriccioso esperimento in vista di una successiva creazione più perfetta? Sono schegge, pensieri fluttuanti che l’autore della lettera esprime caoticamente nella sua ansia di chiedere conto alla “Luminosa signora” della mancanza di senso dalla quale si sente circondato e minacciato. Infatti a questi discorsi si contrappone, come una specie di controcanto, la rievocazione delle certezze ideali che il protagonista ha intravisto attraverso suo padre, granitico rivoluzionario del periodo intorno al Sessantotto, certezze alle quali guarda ormai da una grande distanza temporale con un pizzico di rimpianto o di invidia.
Anche la scrittura che ho adottato è aperta e frammentaria. Il non detto, le ellissi e le eclissi vorrebbero assumere quasi consistenza materiale, vorrebbero dire che in fondo la stessa vita quotidiana è così: molto più bucherellata, confusa e inspiegabile di quanto non appaia. Io penso che la scrittura, se vuol mantenere una sua forza, deve assecondare tutto questo, deve “riflettere” la realtà, ma attraverso uno specchio pieno di curvature non euclidee. Deve farsi“liquida” come Venezia, città d’acqua per eccellenza, dove il racconto è ambientato.

5 – Uno dei tuoi principali campi di ricerca è l’oggettualizzazione della parola. Che tipo di legame esiste tra le parole e gli oggetti nelle tue opere?

Il titolo della mia più recente mostra personale, “Il morso delle cose”, esprime chiaramente il percorso di ricerca che vado sviluppando sia come artista sia come scrittore: indagare come le parole e gli oggetti possano intrecciarsi in un groviglio più complesso di quanto non si creda. Le cose “mordono” le parole, incalzano dietro la scrittura e noi umani le percepiamo attribuendo ad esse una sostanza alfabetica.
In particolare per quanto riguarda la mia ricerca artistica, lavoro con l’intento di dar “corpo fisico” alla parola, esplorandone la natura materica, gestuale, oggettuale, facendo cioè emergere la forza del “significante” (la forma della parola) a volte anche a scapito del “significato” (l’oggetto che la parola rappresenta), nella convinzione che la parola nelle sue mille potenziali aperture semantiche sia ante-rem, venga cioè prima della cosa a cui si riferisce. Le mie sperimentazioni tendono allo sbilanciamento, ricercano un diverso equilibrio fra la parola e i corpi e intendono rappresentare la parola come oggetto fra gli oggetti.
Le opere che ho prodotto fin dagli anni Novanta e che ho chiamato “poesie oggettuali” si riallacciano a un’idea di scrittura che somiglia al solco tracciato nei campi dai contadini nell’azione materiale dell’aratura (per questo alcune personali che ho allestito in quegli anni si intitolavano “Alba pratalia”, con evidente allusione ai “prati bianchi” della pagina di cui si parla nel celebre “indovinello veronese” del XII secolo). Ma questo insistere sulla scrittura come azione fisica, anche se sposta l’attenzione dal significato al significante, non ha mai voluto essere, nel mio caso, una pura esaltazione della forma o della crosta esteriore della parola. Al contrario, ho voluto avviare una riflessione sulla “forza”, ma anche sulla “debolezza” della parola, senza mai perderne divista la centralità. Attraverso la parola gli esseri umani riescono a manifestare la complessità del loro pensiero, ma nello stesso tempo scoprono i limiti della loro natura, in quanto le parole non sono in grado di dare forma verbale a certi territori dell’esistenza, ai lati oscuri, alle pulsioni inconsce, agli azzardi concettuali verso i quali pure l’istinto umano ci conduce. In questo senso la parola è l’elemento rivelatore della condizione umana in tutta la sua drammaticità perché, attraverso i limiti della parola, prendiamo coscienza dei limiti della nostra natura. Se persino nelle forme più alte di poesia ci si scontra prima o poi con qualcosa che, come dice Dante, “significarper verba / non si poria”, se esiste una barriera semantica oltre la quale la natura umana non è in grado di spingersi, se la lingua può essere falsificata e resa “inoffensiva” dal suo uso seriale, se il linguaggio massificato o mediatizzato asseconda il linguaggio del potere, allora bisogna giungere alla conclusione che la comunicazione e di conseguenza la scrittura sono armi a doppio taglio, elementi problematici. Il gesto dello scrivere, che avvenga carezzando con le dita la tastiera di un tablet o intingendo una penna d’oca nel calamaio, è comunque un rischio, un’azione perigliosa, una sfida.